Web e conoscenza

reti sociali, ma soprattutto "conoscenza", apprendimento digitale e l' approccio alla condivisione.
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  1. La morte del lifestream
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    C’è stato un tempo in cui l’ubriacatura social era una cosa molto, ma davvero molto diversa da quello a cui assistiamo oggi. E a quel tempo le attività di lifestreaming erano funzionali a mantenere solide le connessioni e le relazioni fra i vari produttori di contenuti (oggi banalmente chiamati ‘creators’).

    E’ doveroso premettere che questa digressione a cui mi sto approcciando richiederà tempi di lettura lunghi, nonchè continui approfondimenti, ergo saluto qui quelli meno tenaci e agli altri consiglio i tradizionali pop corn.

    • Lifestreaming, dunque:
    Lifestreaming is an act of documenting and sharing aspects of one’s daily experiences online, via a lifestream website that publishes things of a person’s choosing (e.g. photos, social media, videos) da Wikipedia

    Ovvero quello che ho fatto e molti altri come me hanno fatto quando, come early adopters, riempivamo giornalmente le piattaforme social di status update! Ve ne ricordo alcune: Twitter, Forsquare, Foodspotting, Friendfeed, Flickr, Periscope, TripIt, Yelp e poi il crossposting fra piattaforme e poi i feed rss che permettevano la condivisione dei blog post (si, lo so, lo fanno ancora, ma nessuno discute e commenta più un blog post).

    Era un modo per appendere tutto e appuntarsi tutto al fine di rimanere connessi e favorire conversazioni attorno a ciò che giornalmente (spesso in modo compulsivo) succedeva intorno a noi o più semplicemente succedeva per causa nostra e reputavamo utile rendere pubblico.

    Qualcuno potrebbe obiettare che anche oggi succede, grazie ad esempio alle stories di Instagram. Ok, ok, però son cambiate alcune cose e guardando indietro, come sto facendo in questi giorni, ci si rende conto che il vero problema è il medioevo digitale prossimo venturo (o dark age per dirla meglio come quelli bravi).

    Veniamo dunque all’esercizio che sto portando avanti da diversi mesi e che mi ha ispirato in questa trattazione. Allora, ciò che mi è balenato in testa un giorno è legato proprio al tema della dark age, ovvero la prospettiva futura in cui sarà impossibile recuperare i contenuti digitali che ho prodotto perchè troppo datati, inaccessibili per chiusura della piattaforma che li ospitava o più semplicemente impossibili da leggere a causa del formato.

    "Se tenete a una foto, stampatela. Ci stiamo lasciando dietro un deserto digitale, un nuovo Medioevo"

    Per capirci meglio è sufficiente pensare alle scelte fatte da Yahoo con Flickr o Geocities. Li dentro c’era più di un decennio di contenuti generati dagli utenti. E, ovviamente c’erano anche i miei. Chi lo avrebbe mai detto? In fin dei conti Yahoo era ciò che oggi è Google e nessuno aveva previsto tale cataclisma.

    Ma torniamo al lifestream. Dal 2007, con l’avvento del microblogging, tutto ciò che raccoglievo (raccoglievamo) sul digitale veniva anche condiviso su Twitter. In origine, il motto/prompt della piattaforma era: ‘Cosa stai facendo?’

    Una vera call to action che invitava proprio a condividere uno status update legato alle attività di life streaming!

    Ammetto la mia addiction. Fra il 2008 e il 2009 producevo anche 10 tweet al giorno, con punte di 20. Follia!
    Il flusso continuo riguardava un po’ di tutto, dai semplici stati d’animo, alle foto di tutto ciò che sembrava rilevante e condivisibile, dalle diffusioni dei contenuti (post, articoli, feed rss, ecc.) alle cronache in #livetweeting degli eventi, sulle quali si potrebbe aprire un capitolo a se stante, includendo le call to action pre evento, le piattaforme (twitter board) di condivisione in tempo reale installate in sala conferenze, per finire con gli aggregatori di tweet post evento, come Storify, Rebelmouse, ecc.

    Oggi tutto ciò sembra preistoria, ma son passati solo 10 anni e da qualche parte nel cloud tutti quei contenuti (o meglio, parte di essi) continuano a galleggiare ignorati da tutti.

    • La bonifica

    Dunque mi son detto, perchè non provare a recuperare il recuperabile? E son partito proprio da Twitter, operando per il takeout del mio vecchio account, quello che ho utilizzato dal 2007 al 2017.

    A giochi fatti mi son portato a casa circa 266 Mb di dati che ora conservo gelosamente su un disco locale e sui quali sto operando una pulizia generale che, però, si rifletterà solo sull’on line.

    Provo a spiegarmi meglio: L’archivio prelevabile con il servizio di takeout permette di sfogliare tutti i tweet prodotti in passato direttamente sul disco locale con navigazione web via browswer, grazie al formato html nel quale l’archivio stesso viene scompattato.

    A questo punto, operando con grande pazienza, si possono sfogliare i vecchi tweet e poi verificare se la loro corrispondenza on line abbia ancora senso e/o sia fruibile nei contenuti mediali o significativa per originalità, freschezza o importanza. E per fare ciò è sufficiente cliccare sul link:
    ‘ Visualizza su Twitter’ che appare in fondo ad ogni tweet locale dell’archivio scaricato.

    Così facendo ci si trova catapultati sul tweet originale ancora presente on line e si potrà decidere se mantenerlo o cestinarlo.

    Per quanto mi riguarda e in relazione all’enorme flusso che ho creato negli anni con la condivisione di contenuti relativi a link esterni, posso asserire che il 90% degli stessi non è più funzionante e rimanda ora ad un fatale 404. Secondo me tutto ciò fa perdere anche l’essenza delle conversazioni che si son create nel tempo attorno a quei contenuti persi, e dunque zac, quel tweet lo taglio dall’on-line! Ciò che è stato è stato. Punto! Anche se, grazie al takeout, potrò sempre conservare una copia dei contenuti e l’intera conversazione in locale.

    Qualcuno potrà dire: ma chi te lo fa fare? E mica posso darvi torto!
    Qui entriamo nella sfera delle mutazioni emozionali, sentimentali e relazionali che da un po’ di tempo mi ha portato a fare riflessioni profonde sul lifestream.

    • Emozioni e sentimenti

    Come ho già premesso c’è un’enorme differenza di approccio al lifestream fra noi early adopters e quelli che son venuti dopo. Un’approccio che ha portato a una deriva, secondo me, poco edificante ma soprattutto poco utile. E quando dico poco utile, penso a me stesso.

    Per me il lifestream era connettivismo e condivisione. Quindi fare rete e condividere intelligenza collettiva e valori. Ora non lo è più. Dunque perchè lasciare tracce inutili e soprattutto tracce pubbliche personalissime che erano destinate solamente a chi come me condivideva quei valori?

    Inoltre, molti di quei contenuti erano una specie di diario giornaliero di ciò che facevo nel periodo in cui la rete delle mie relazioni si arricchiva anche di esperimenti sociali, momenti di aggregazione su fenomeni indotti da tecnologie emergenti e tantissime testimonianze di progettualità legate alla mia professione, ai miei viaggi di lavoro e alle tantissime occasioni di socializzazione web (barcamp, convegni, feste, ecc.) condivise con persone con le quali oggi riesco ad avere rapporti veri e diretti, non mediati dal lifestream pubblico.

    Insomma, sto parlando con tanta nostalgia di quel meraviglioso periodo riferibile alla polemica della ‘terza persona’, ve li ricordate?

    E proprio quelli della terza persona e fra loro quei pochi che leggeranno questo lungo post, converranno che quei momenti, quei ritmi, quei valori oggi son svaniti. O, a dire il vero, è più probabile che chi ha vissuto quel momento magico non si riconosa più nei modi e negli usi attuali degli stessi servizi che ancor oggi supportano il lifestream (Twitter in primis).

    Ultima considerazione, ma non meno importante, riguarda il grabbing dei contenuti pubblici da parte di bot. A me è successo, giuro. E’ tutto vero! Non so perchè sia successo, ma uno dei miei primi blog con migliaia di post è stato completamente grabbato e riposizionato su un sito commerciale.

    Eccolo qua: http://www.hotels-milan.net/it/webeconoscenzanet/
    Prima o poi dovrò decidermi a consultare la polizia postale per capire come risalire a chi ha fatto questa operazione e se la si può considerare illecita, visto che i contenuti sono miei!

    • Il diario!

    Veniamo ora al ripiegamento intimista e alle mie scelte, che, come avete capito non sono solo riconducibili solo al problema della dark age.
    Dunque, procedendo con l’attività suddetta ho riscoperto moltissime foto che non avevo conservato, perchè scattate al volo direttamente dentro l’app utilizzata di volta in volta per definire status e/o per segnalare contenuti e momenti.

    Ciò è stato possibile incrociando i dati di Twitter, Facebook, Forsquare, Tripit e Foodspotting (che non c’è più, ma di cui Twitter conserva le foto linkate) e altri social minori.

    Purtroppo non ho trovato nessun mirror di Friendfeed che fra il 2008 e il 2009 è stato il luogo nel quale ho postato più contenuti. Sigh!

    Ecco, alla fine ce l’ho fatta, ho recuperato il recuperabile e ho risposto a una domanda che mi ero fatto proprio su Twitter nel 2008.

    Serve a me, solo a me, perchè non ho un pubblico di riferimento fidelizzato e soprattutto conosciuto e stimato per reciprocità e condivisione di valori. Tutti quei contenuti devono tornare a me e sparire dal web pubblico. Io non ho e non voglio avere un pubblico.

    Mantellini: … gli ambienti digitali hanno inaugurato la stagione dei segnali. Esserci è un segnale, (ci sono, sto bene, ti vedo anch’io come tu vedi me) ma anche non esserci è diventato un segnale. Scomparire improvvisamente è un segnale: nel luogo in cui ogni giorno si è rappresentati non esserlo più autorizza forme più o meno forti di interpretazione magica.

    Ora il mio segnale non è sparire del tutto, ma diminuire la presenza e trovare un luogo sicuro (digitale) dove conservare quello che ho ritrovato e che mi suscita ancora emozioni. Per me, solo per me.

    Gli ambienti scelti per questo riposizionamento sono due. Il primo è DayOne che già adottavo durante viaggi e vacanze per redigere il diario.

    Il secondo è più recente, ed è Journal, il nuovo diario della Apple per ora disponibile solo su Iphone.

    Apple lancia Diario, una nuova app per riflettere sui momenti della quotidianità.

    Esasperando il lavoro che ho intrapreso per recuperare il recuperabile sono arrivato a creare un vero e proprio mirror fra le due applicazioni.
    I dati recuperati sono ora organizzati, datati, taggati, geolocalizzati, ecc. in modo da non perderli più nel mare magnum del web pubblico dove non interessano a nessuno e soprattutto perdono di valore affettivo.

    My2cent


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  2. AI, Open Gov e approccio etico
    Photo by Luke Southern on Unsplash

    Mi appunto, as usual, alcune note a supporto del contributo che porterò al talk: Intelligenza artificiale e open gov: un matrimonio possibile? organizzato da ForumPA.

    Intelligenza artificiale e open gov: un matrimonio possibile? - FPA

    Partendo dalla considerazione, piuttosto ovvia, che rispetto ai temi cardine e ai principi fondanti della cultura e della strategia dell’Open Government (trasparenza, partecipazione, innovazione, ecc.) quello dell’Open Data risulta oggi il più maturo e più facilmente declinabile in soluzioni innovative concrete (grazie soprattutto ai prodotti e ai servizi derivanti dal riuso dei dati) appare quasi logico che l’attenzione dell’Intelligenza Artificiale e delle sue recenti e dirompenti innovazioni possa e debba rivolgersi proprio al patrimonio di dati pubblici già pronto e disponibile all’uso.

    Considerando, inoltre, i superpoteri percepiti e i vantaggi derivati dall’uso di servizi di IA generativa come ChatGPT, CoPilot o Gemini che permettono di fare cose che un tempo riuscivano a fare solo i nerd (a tal proposito, pensiamo proprio ai prodotti del riuso dei dati, molto difficili da creare per le persone comuni che, fino a ieri, han dovuto affidarsi esclusivamente a soluzioni e servizi progettati da altri).

    Dunque, il contesto attuale sul quale anche l’Open Government Data oggi vorrebbe rispecchiarsi è quello che, grazie all’IA generativa, rende tutto maledettamente più facile e soprattutto aperto e disponibile a tutti grazie a servizi mirabolanti che consentono di realizzare qualcosa di creativo from scratch, senza essere nerd ma semplicemente interagendo con un bot.

    Dopo questa premessa di contesto, mi concentrerei ora su alcuni aspetti da dibattere e approfondire durante il talk a cui sono stato invitato.

    • In generale associare l’IA all’Open Data e cercarne sinergie possibili rappresenta un po’ un ossimoro, perchè l’Open Data è figlio naturale di altri paradigmi, tutti open e partecipati by default: Open Source, Open Government, Copyleft sui diritti di distribuzione, Free of charge, ecc. L’IA, invece, è gestita da colossi che non condividono questi modelli teorici, filosofici e pratici e nemmeno i valori di trasparenza, controllo democratico e partecipazione civica in primis, che li sostanziano.
      Basta fare un po’ di ricerche su Google con la keyword: ‘Biggest AI companies’ e i risultati che emergono in forma di classifica ordinata sull’impegno in ricerca, sulla potenza di calcolo, o semplicemente sui dollari investiti in IA, portano in evidenza sempre le stesse multinazionali: Microsoft, Google, Meta, Apple, Nvidia, Intel, ecc.
      Inoltre, rispetto alla precondizione di disponibilità e gratuità degli Open Data e dei prodotti derivati, le nuove piattaforme di IA generativa (utili per produrre contenuti, nonchè agevolare o sostituire attività a supporto delle persone e delle organizzazioni), sono tutte basate su un modello di business che prevede un pagamento a fronte delle prestazioni erogate!
    • Più in particolare poi, abbiamo un enorme problema di privacy dei dati. Con l’IA soprattutto i dati personali e delle interazioni fra le persone sono in grande pericolo. Val la pena dunque soffermarsi sul tema importantissimo della privacy differenziale (1) ovvero quell’approccio alla protezione dei dati che permette di trarre delle conclusioni utili analizzando uno o più insiemi di dati ma, al tempo stesso, garantisce che le informazioni su un singolo individuo rimangano celate.
      Ecco, questa attenzione che con l’Open Data viene sempre garantita, con l’IA nessuno può sapere se venga rispettata!
    • Un altro problema etico è quello relativo alla bonifica delle informazioni generate, e dunque dei dati raccolti, attraverso lo sfruttamento del lavoro tossico. Dietro all’incredibile successo di una società come OpenAI che ha reso possibile la generazione automatizzata di testi, immagini, suoni, video, nonchè la soluzione di problemi di natura matematica finora ritenuti impossibili, si cela un problema che nessuna macchina è in grado di risolvere, ovvero distinguere il buono dal cattivo, il vero dal falso e l’opportuno dal suo contrario.
      Per fare questo OpenAI si è rivolta a una forza lavoro umana, dislocata in Kenia e sottopagata. Per soli 2 dollari all’ora i lavoratori kenioti si sono occupati di ascoltare e visionare milioni di contenuti raschiati dal web per poterli successivamente etichettare e dare in pasto alla macchina che, a quel punto, era istruita su cosa elaborare e cosa scartare.
      Anche questo fatto dimostra la distanza siderale dai principi dell’Open Data che identifica, fra le caratteristiche imprescindibili degli stessi, il fatto di essere raccolti e trattati come primari e non discriminatori.

    Exclusive: The $2 Per Hour Workers Who Made ChatGPT Safer

    • Infine, e non per ultimo come importanza, c’è il tema della trasparenza, vero pilastro dell’Open Data e dell’Open Government. Per anni ci siamo battuti per imporre un modello basato sulla totale libertà e soprattutto trasparenza dei dati. Per offrire capacità di analisi e soprattutto predittive basate su su dati, processi e algoritmi aperti, disponibili e migliorabili da tutti.
      La definizione di standard sui dati, sui cataloghi, sui metadati, sulle API, ecc. sono stati portati a livelli di partecipazione mai visti prima e che hanno impegnato un esercito di stakeholder a vari livelli, dai produttori ed estrattori di dati, alla governance pubblica insediata nella PA, ai nerd sviluppatori di soluzioni, passando per il regolatore e infine il controllore, inteso quest’ultimo come movimentismo attento (Fondazioni, Associazioni, Comitati e Gruppi di lavoro) e parte integrante del processo. Insomma, trasparenza vera, non solo dichiarata nelle intenzioni.
      On the other side, che ne sappiamo dell’IA, dei dati raccolti, degli algoritmi e del controllo sui risultati del machine learning?
    L’IA generativa è caratterizzata da opacità radicale, e chi se ne occupa lo sa da parecchi anni: il funzionamento di questi sistemi è ben compreso da chi li progetta, quindi spiegabile (per lo meno in senso generale) a chiunque; invece, il modo esatto in cui essi eseguono con tanta efficienza i propri compiti rimane vago o indecifrabile anche agli addetti ai lavori, a causa della complessità di questi sistemi e della mole di dati su cui si allenano

    Quale trasparenza per l'IA?

    Rispetto a tutti questi problemi che denotano un approccio poco etico e poco trasparente, risulta però ancora più difficile assimilare l’Open Government Data con l’IA, riguardo allo specifico tema occupazionale.

    Val la pena ricordare che quando il presidente Obama enunciò: ‘man mano che i dati aperti continuano a essere utilizzati in modo più ampio, i risultati non si limiteranno a una maggiore efficienza e a una riduzione delle spese inutili nel governo, ma creeranno anche crescita economica e posti di lavoro grazie ai prodotti e ai servizi che utilizzano le informazioni come base’, da più parti si azzardò sull’effetto coda lunga che l’Open Data poteva dare all’occupazione.

    Ciò portò anche la UE a sostenere che: ‘si possono identificare diversi vantaggi economici derivanti dal riutilizzo dei dati aperti, sia diretti che indiretti. I benefici diretti sono benefici monetizzati che si realizzano nelle transazioni di mercato sotto forma di ricavi e valore aggiunto lordo, numero di posti di lavoro coinvolti nella produzione di un servizio o prodotto e risparmi sui costi. I benefici economici indiretti sono, ad esempio, nuovi beni e servizi, risparmio di tempo per gli utenti di applicazioni che utilizzano dati aperti, crescita dell’economia della conoscenza, maggiore efficienza nei servizi pubblici e crescita dei mercati correlati’.

    Su questo tema la distanza siderale fra i due modelli è ancora più marcata e ne ho parlato proprio in un recente articolo pubblicato su Smart Working Magazine

    Ancora tagli al personale nelle società tecnologiche, tutta colpa o effetto dell'Intelligenza Artificiale? | SW Magazine

    anticipando brutte sensazioni che, nei giorni successivi, hanno portato a uno dei più consistenti atti di licenzamento/riposizionamento causati dall’IA degli ultimi anni.

    Come considerazione finale vorrei però lasciare aperta la porta della speranza che dovrebbe condurre verso un IA controllabile, più etica e per certi versi più open. E lo faccio citando Demis Hassabis, amministratore delegato di DeepMind (di proprietà del gruppo Google/Alphabet) che, durante il recente Mobile World Congress di Barcellona, pur incalzato dai giornalisti sui problemi di Gemini e in particolare sul ‘caso’ che ha fatto discutere mezzo mondo relativamente all’incapacità del giocattolo di Google nel generare immagini di persone dalla pelle bianca, ha risposto lanciandosi in una previsione di apertura, ovviamente tutta da verificare:
    I principi etici di DeepMind, che abbiamo avuto fin dall’inizio, sono poi confluiti in quelli che oggi sono i ‘Google AI principles’ e che ci guidano nello sviluppo e nell’uso dell’intelligenza artificiale. C’è un dibattito in corso, che interessa anche i governi e la società civile, su come impedire alle persone sbagliate di accedere a questa tecnologia per farne un uso dannoso. Stiamo parlando di un tema complesso, che tocca anche l’AI Open Source di cui siamo grandi promotori. Proprio recentemente abbiamo lanciato Gemma, un modello di IA per la comunità open source. Perché sappiamo che molte persone, ma anche molte aziende, vogliono sviluppare e controllare direttamente ciò che fanno con l’IA. Ma ogni volta il tema dell’uso dannoso ritorna, e io dico che questo oggi non è un vero problema perché stiamo parlando di una tecnologia giovane. Ma tra tra pochi anni, tre o quattro, quando queste IA diventeranno più potenti e saranno in grado di pianificare e compiere azioni nel mondo reale, l’intera società dovrà preoccuparsi seriamente’.

    Note:

    1 — In pratica, si tratta di aggiungere in vari modi un livello di incertezza (“rumore”, in molti casi, ma sono possibili altre tecniche) ai dati, in modo che — pur mantenendo questi, al contempo, un certo grado di utilità complessiva (obiettivo in contrapposizione a quello di riservatezza) — sia impossibile risalire alle informazioni di una persona identificata o identificabile (fonte).

    2— Il testo di questo post non è stato in alcun modo generato o integrato, utilizzando con strumenti di AI generativa: https://www.zerogpt.com/


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  3. E se l’AI scrivesse il mio curriculum? | SW Magazine

    E se l’AI scrivesse il mio curriculum?

    Originariamente pubblicato su Smart Working Magazine © il 18 Ottobre 2023.

    Molteplici e sempre più efficaci sono gli utilizzi, soprattutto creativi, delle intelligenze artificiali generative. E allora perché non affidarsi ad esse anche per creare o migliorare il proprio CV?

    L’Intelligenza Artificiale si sta ormai affermando anche nel campo della stesura del curriculum vitae grazie a una serie di piattaforme web e app che sfruttano l’AI generativa per la semplice compilazione e altre, più raffinate, che possono mettere in relazione le informazioni contenute nei CV con le varie offerte di lavoro. In gergo, queste piattaforme/servizi vengono definite AI resume builder e sfruttano appositi algoritmi di Intelligenza Artificiale (AI) progettati proprio allo scopo di rendere facile e veloce la scrittura del proprio curriculum vitae.

    La prova sul campo

    Personalmente tengo sempre d’occhio la directory di Futurepedia (una delle tante risorse che elencano i servizi di AI emergenti) e, proprio partendo da questo sito, consiglio di approfondire la visita nella categoria dedicata alle HR o più semplicemente di digitare nel box di ricerca il termine ‘ resume’ o ‘ resume builder’.

    Dopo questa full immersion e alcune prove sul campo utilizzando alcuni dei servizi gratuiti o freemium fra quelli elencati dal sito, posso confermare che le AI generative sono strumenti molto utili per creare un CV ben strutturato e privo di errori grammaticali e, non da ultimo, molto ammiccanti nel proporre frasi preconfezionate di forte impatto (in pratica frasi e/o paragrafi molto complessi e pertinenti che ben si adattano alla posizione lavorativa a cui apparteniamo).

    Notevoli anche i vari modelli grafici (template) disponibili e davvero utili gli strumenti di valutazione (presenti solo in alcuni dei servizi testati) che assegnano un punteggio al nostro CV in base all’impatto del design e all’efficacia del contenuto, per proporre suggerimenti tesi a migliorarlo e a scalare verso l’alto nel punteggio, fino a raggiungere una presunta perfezione.

    Le raccomandazioni finali

    Tuttavia, nonostante questi aiuti proposti dall’automazione, è fondamentale ricordare che il CV dovrebbe riflettere in modo molto più accurato le nostre competenze, esperienze e abilità. Ecco perché è importante dedicarsi a questo esercizio con le dovute precauzioni, integrando, correggendo e ampliando quanto l’AI ci propone.

    Alcuni consigli basilari da seguire potrebbero essere i seguenti:

    • Fornisci sempre informazioni accurate: L’ AI può aiutarti a organizzare e formattare le informazioni, ma solo tu puoi fornire dati veritieri e aggiornati sulle tue esperienze lavorative, istruzione e competenze;
    • Personalizza il tuo CV: Non utilizzare un modello generico per tutte le tue candidature. Adatta il tuo CV in base alla posizione specifica per cui ti stai proponendo. L’ AI, invece, può aiutarti facilmente a modificare il CV in base alle esigenze del datore di lavoro;
    • Rivedi e modifica: Anche se hai utilizzato l’AI per scrivere il tuo CV, è fondamentale rivedere attentamente il documento che ti viene proposto. Correggi eventuali errori grammaticali o informazioni inesatte. Assicurati che il CV rispecchi la tua personalità e il tuo stile;
    • Aggiungi una nota personale: Un CV generato da un’AI potrebbe sembrare freddo e impersonale. Considera l’aggiunta di una breve sezione personale che evidenzi i tuoi obiettivi, le tue motivazioni e la tua passione per la posizione a cui ti candidi;
    • Mantieni il controllo: L’AI può essere uno strumento di supporto, ma non dovrebbe sostituire completamente il tuo coinvolgimento nel processo di creazione del CV. Solo tu possiedi una conoscenza approfondita delle tue esperienze e delle tue abilità, quindi assicurati che il CV rifletta appieno chi sei.

    In sintesi l’uso di un AI generativa per scrivere il proprio curriculum vitae può essere utile, ma dovremmo sempre mantenere un controllo attivo sul processo e assicurarci che il CV sia accurato, personalizzato e rispecchi la nostra professionalità e le nostre aspirazioni.

    Originally published at https://www.smartworkingmagazine.com.


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  4. Posto fisso? Concorsi pubblici? No grazie… | SW Magazine

    Posto fisso? Concorsi pubblici? No grazie…

    Originariamente pubblicato su Smart Working Magazine © il 20 Settembre 2023.

    Dopo decenni di blocco forzato delle assunzioni, la Pubblica Amministrazione si trova ora a dover fare i conti con il ricambio generazionale in un periodo nel quale il “posto fisso” ha perso la sua attrattività. E non è più così ambito come prima.

    Sembra quasi un ritornello, a volte anche noioso, ma nel bene o nel male dobbiamo ancora citare la recente pandemia come spartiacque per qualcosa, se non proprio per qualsiasi cosa soggetta al cambiamento. E il mondo del lavoro, a tutti i livelli, è stato pesantemente scosso da questo recente evento. E così anche il comparto pubblico sembra in movimento verso un aggiornamento generazionale atteso da tanto. Forse da fin troppo tempo.

    Ricordiamo che, secondo gli ultimi dati raccolti da INPS, stiamo parlando di circa 4 milioni di addetti divisi in diverse sezioni (scuola, sanità, enti locali territoriali, ecc.) chiamati a gestire la “cosa pubblica” in una società che cambia velocemente e che desidera veder pienamente realizzate riforme attese da anni, per esempio semplificazione, trasparenza, digitalizzazione/dematerializzazione e sburocratizzazione. Riforme necessarie per rendere i cittadini meno sudditi e meno vessati.

    Nuovi fondi per nuove sfide.

    I motivi del blocco del turnover in questo delicato settore sono da ricercarsi principalmente nel contenimento della spesa, ma sono anche frutto di approcci ideologici e politici che hanno attraversato un po’ tutti i partiti che si sono alternati al governo del paese in questi ultimi 20 anni. Il sito di fact-checking politico Pagella Politica, tra l’altro, proprio un anno prima della pandemia, aveva annunciato come il blocco delle assunzioni avesse di fatto immobilizzato la Pubblica Amministrazione italiana.

    Successivamente, a partire dagli ultimi 5–6 anni, grazie soprattutto ai fondi del PNRR e dalla necessità di gestire gli stessi da un punto di vista tecnico, amministrativo e contabile, la Pubblica Amministrazione (PA) italiana ha bandito vari concorsi, anche per colmare il vuoto che i pensionamenti avevano creato. Ma come sta andando questa partita? I giovani si stanno riversando in massa nel pubblico impiego per cambiarlo e ammodernarlo?

    La risposta è no! Da più parti erano giunti segnali sconcertanti già nel 2021, proseguiti poi per tutto il 2022, che hanno fatto notare le prime crepe su tutto l’impianto progettato per reclutare personale nella PA. Infatti, nonostante i numeri prevedessero una prima chiamata per 800 esperti da piazzare nei ministeri per gestire il PNRR e un’altra da 2.800 unità per aiutare specificatamente le amministrazioni del sud a spendere i soldi dei Fondi di Coesione Europei (il famoso “concorsone Brunetta”), l’esito è stato deludente perché alla prova si è presentato solo il 65% dei candidati.

    Il 2023, con il PNRR a pieno regime, non ha migliorato le cose, e molti sono i segnali negativi che provengono non solo dalle amministrazioni centrali, ma anche e soprattutto dalle piccole realtà locali come i comuni e piccole realtà.

    Ma quali sono i motivi che portano i giovani a disertare questi concorsi?

    Prima di tutto le procedure concorsuali ancora molto farraginose e lunghe. Il portale in stile Linkedin voluto da Brunetta stenta a decollare ed è ancora poco conosciuto. Poi, a mio avviso, anche queste caratteristiche causano la disaffezione dei giovani:

    • la mancanza di prospettive rispetto alla carriera, il cui accesso è sempre poco chiaro, scarsamente meritocratico e ancora troppo vincolato ai voleri e ai piaceri dei politici;
    • un generale atteggiamento negativo nei confronti della “cosa pubblica”, del bene comune e del concetto di ‘servizio’ per la collettività, figlio anche di una cultura generale che non ha mai considerato il ‘pubblico’ come valore, ma molto spesso come disvalore a causa dell’inefficienza, dello spreco e della vessazione;
    • lo stipendio che, per lo meno per i livelli esecutivi e per i quadri intermedi, è ancora modesto e non riesce a competere con quelli erogati dal privato;
    • contratti di comparto ancora basati su funzioni e declaratorie descrittive dei ruoli legati quasi esclusivamente alle mansioni. Manca l’aspetto progettuale e programmatico tipico del lavoro moderno, che prevederebbe collaborazione in team liquidi e multidisciplinarietà nonché scambio di ruoli fra i componenti;
    • molti altri motivi ancora, legati soprattutto al benessere organizzativo, alla felicità, alla soddisfazione, al riconoscimento del merito e al bilanciamento vita/lavoro.‍

    Un esperto di leadership pubblica come il prof. Arthur C. Brooks, sostiene da tempo che la felicità è la combinazione di tre elementi: il piacere, la soddisfazione e lo scopo. Nella PA italiana (dove è tuttora difficile aspirare alla carriera), invece, diventa quasi impossibile dare un significato a ciò che si fa quotidianamente e perciò raramente si riesce a godere della giusta soddisfazione.

    Sfugge infatti spesso lo scopo, a causa del dover operare per adempimento e non per convinzione, per il volere di norme astruse e/o degli obblighi più incomprensibili. E dunque, laddove viene sempre meno valorizzata la professionalità e svilito il significato ultimo di ciò che si fa, è assai difficile essere felici. Meglio allora guardare verso altre direzioni.

    Originally published at https://www.smartworkingmagazine.com.


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  5. Social a pagamento: quali prospettive per gli influencer? | SW Magazine

    Social a pagamento: quali prospettive per gli influencer?

    Originariamente pubblicato su Smart Working Magazine © il 14 Dicembre 2023.

    Nel vivace ecosistema dei social media, i cosiddetti social influencer sono diventati figure chiave grazie alla loro attitudine nel trasformare le passioni e i contenuti in veri e propri business. Il loro successo è dovuto in larga parte alla capacità di influenzare l’opinione pubblica e di modellare i comportamenti d’acquisto da parte degli utenti dei social media generalisti (Instagram, You Tube e Tik Tok in primis).
    Possiamo persino spingerci oltre e affermare che molti di loro, in questi ultimi anni, sono riusciti persino a rivoluzionare il marketing moderno e a ridefinire quasi del tutto gli schemi, i ritmi, e i modelli di sviluppo, offrendo persino opportunità per ‘nuovi mestieri’ che sfuggono persino alle convenzioni del mondo digital.

    La loro ‘professione’ è comunque in costante mutamento, ma non priva di ostacoli e cambiamenti repentini, anche perché con l’avvento delle recenti politiche di monetizzazione imposte dalle maggiori piattaforme social, essi stessi si troveranno ad affrontare scenari non prevedibili, con nuove sfide ma anche nuove opportunità che richiederanno rinnovate abilità strategiche e una consapevolezza normativa più attenta.

    ‍La monetizzazione dei Social Network: una lama a doppio taglio

    La decisione di molti social network di introdurre opzioni a pagamento (dopo X, anche il mondo Meta ha deciso di intraprendere questa strada per i suoi gioielli Facebook e Instagram) al fine di amplificare la visibilità degli utenti o per offrire loro funzionalità premium, rappresenta un’evoluzione naturale del mercato.

    Diverse sono le motivazioni che hanno spinto i colossi digital a queste scelte:

    • Monetizzazione diretta: le piattaforme social cercano di massimizzare i loro profitti. I servizi a pagamento si aggiungono al modello basato sulla pubblicità per creare una nuova fonte di reddito diretto.
    • Valore aggiunto: per giustificare questi costi imputati all’utenza, i social network offrono funzionalità premium o miglioramenti dell’esperienza utente che non sono disponibili nella versione standard gratuita, come ad esempio: analisi avanzate, maggiore visibilità e funzioni di targeting.
    • Saturazione del mercato: con la maturazione del mercato dei social media e la crescente competizione per l’attenzione degli utenti, è più difficile mantenere una crescita elevata attraverso la sola pubblicità. I servizi a pagamento possono fornire una crescita alternativa.
    • Qualità del contenuto: i social media possono anche utilizzare i servizi a pagamento come un modo per incentivare la creazione di contenuti di qualità superiore, offrendo ai creatori professionisti strumenti migliori in cambio di una contropartita non gratuita.
    • Limitare lo spam e i contenuti di bassa qualità: i servizi a pagamento possono funzionare come un filtro per limitare la quantità di spam o contenuti di bassa qualità (speriamo anche le fake news), poiché gli utenti che sottoscrivono gli abbonamenti sono generalmente più coinvolti nella piattaforma e ne prediligono un approccio professionale e autorevole.
    • Unicità e status: offrire alcune funzioni a pagamento può creare un senso di esclusività e status. Gli utenti possono così permettersi dei servizi premium con i quali ottenere status speciali all’interno della community, come badge o accessi a contenuti riservati e iniziative esclusive.
    • Aderenza alle esigenze degli utenti: in alcuni casi queste piattaforme ingegnerizzano dei servizi a pagamento in risposta alle richieste degli utenti, offrendo di conseguenza caratteristiche o servizi che la stessa base utenti desidera, ma che non sono sostenibili e/o giustificabili in un’offerta free di tipo generalista.
    • Sostenibilità a lungo termine: con la crescita del numero di utenti e l’aumento dei costi di gestione e sviluppo delle piattaforme, i servizi a pagamento possono fornire un flusso di entrate più stabile e prevedibile rispetto alla pubblicità che, come sappiamo, è soggetta a cicli e/o influenzata da fattori esterni come crisi economiche o mutamenti emozionali e sociali e dell’utenza.

    Se da un lato quanto elencato potrebbe garantire agli influencer una maggiore penetrazione dei loro contenuti, dall’altro questo nuovo paradigma pone la necessità di riconsiderare le strategie di investimento. Il budget pubblicitario deve ora essere ripensato per assicurare un ROI (Return On Investment) ottimale, senza dimenticare l’importanza di costruire una comunità organica, dunque spontanea e più impegnata che, comunque, rimane sempre la garanzia per il successo su questi ecosistemi digitali.

    Normative e trasparenza: il nuovo alfabeto dell’influencer

    Con la crescente pressione per una maggiore trasparenza e la regolamentazione delle collaborazioni pubblicitarie (già la Fade Trade Commission negli Stati Uniti, l’AGCOM in Italia e altre autorità simili a livello globale impongono linee guida stringenti sulla chiarezza dei messaggi promozionali), gli influencer devono affrontare sfide legali non trascurabili. Il rispetto delle normative sulla pubblicità, l’identificazione chiara dei contenuti sponsorizzati e la dichiarazione dei redditi diventano elementi cruciali per operare nel rispetto delle leggi e per mantenere la fiducia del pubblico. La trasparenza non è più un optional, ma una pietra angolare della credibilità online.

    ‍Tassazione e dichiarazione dei redditi: il dovere dell’influencer professionista

    Queste particolari figure professionali, ormai non più emergenti ma consolidate nel panorama della comunicazione e del marketing digitale, dovranno ora affrontare con maggior serietà la gestione fiscale dei propri introiti e non potranno più eludere tale adempimento, in quanto la regolazione nazionale e internazionale è riuscita (pur in ritardo) ad adeguarsi. Già oggi, in molti paesi, i guadagni generati attraverso le attività di influencer sono soggetti a tassazione e devono essere dichiarati in modo appropriato. La conoscenza delle proprie obbligazioni fiscali e l’assistenza di consulenti qualificati diventano imprescindibili per una gestione oculata del proprio business e per evitare multe salate.

    Verso un Business Plan solido ed efficace per gli influencer

    Di fronte a queste nuove dinamiche, gli influencer dovranno strutturare un vero e proprio business plan che li aiuti a definire obiettivi chiari, strategie di marketing precise, una gestione finanziaria attenta e una pianificazione fiscale impeccabile. Elementi quali la diversificazione delle fonti di reddito, l’investimento in formazione continua (gli algoritmi e i modelli di deploy dei Social Media cambiano continuamente) nonché l’utilizzo di strumenti di analisi dati sono altrettanto fondamentali per costruire una carriera sostenibile e a lungo termine.

    Definire quindi un business plan per un influencer non è un’impresa semplice, data la volatilità del mercato e la dipendenza da algoritmi spesso imprevedibili. Tuttavia, alcuni passaggi chiave possono essere identificati:

    • Analisi del target di mercato: identificare e comprendere il pubblico di riferimento è vitale per qualsiasi strategia di contenuto;
    • Diversificazione delle fonti di reddito: sponsorizzazioni, affiliazioni, vendita di merchandising, creazione di contenuti esclusivi per piattaforme a pagamento, sono solo alcuni esempi;
    • Pianificazione strategica: stabilire obiettivi a breve e lungo termine e adeguare la strategia di contenuto in base alle performance e ai feedback del pubblico;
    • Compliance legale e fiscale: assicurarsi la consulenza di esperti per navigare le acque spesso torbide delle normative pubblicitarie e fiscali.

    Conclusione: l’influencer come imprenditore del proprio brand

    Gli influencer sono dunque chiamati oggi ad essere imprenditori di se stessi, con una consapevolezza critica dei cambiamenti in atto e delle competenze richieste dal mercato. Lontano dall’essere solo una figura pubblica in rete, l’influencer deve ormai incorporare le competenze di un manager, di un esperto di marketing e di un conoscitore attento delle normative nazionali e internazionali. Solo coloro che sapranno evolversi, mantenendo al contempo un’autenticità che soddisfi e appassioni il loro pubblico di riferimento, riusciranno a prosperare nell’incerto futuro del digitale.

    In questa nuova era, l’adattamento e l’innovazione saranno le chiavi per trasformare i cambiamenti in opportunità, definendo così la traiettoria di successo anche per gli influencer di domani.

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    Social a pagamento: quali prospettive per gli influencer? | SW Magazine was originally published in Webeconoscenza on Medium, where people are continuing the conversation by highlighting and responding to this story.